Parli come ChatGPT? Forse è più comune di quanto credi Futuro Prossimo

Parli come ChatGPT? Forse è più comune di quanto credi Futuro Prossimo

Ah, la scienza. Sempre lì a scoprire l’acqua calda, o, come in questo caso, che quando passiamo troppo tempo con qualcuno, finiamo per parlargli come lui. Sembra una banalità da bar dello sport, eppure il venerabile Max Planck Institute for Human Development (sì, quel Max Planck, mica un gruppo di amici al pub) ha speso risorse e cervelli per dimostrarci che sì, signori, la nostra parlata sta iniziando a suonare pericolosamente simile a quella di una certa intelligenza artificiale. Avete presente il linguaggio di ChatGPT? Ecco, quello.

Pare che, a forza di interagire con questi modelli linguistici o di leggere contenuti generati da loro, ci stiamo tutti un po’ ‘chatgippittizzando’. Insomma, se prima si diceva ‘mi piacerebbe capire a fondo’, adesso magari ci scappa un ‘desidero approfondire’. E non è l’unica perla che ci stiamo mettendo in bocca, senza nemmeno rendercene conto. Non vi pare che sia il caso di rifletterci sopra un attimo?

Il contagio del linguaggio ChatGPT

I ricercatori hanno monitorato qualcosa come 280.000 video su YouTube (fonte Gizmodo), un campionamento che fa invidia a chiunque cerchi di capire le tendenze umane. E sapete cosa hanno scoperto, tra una “challenge” e un video di gattini?

Che certe parole, quelle che potremmo chiamare le “parole preferite” dall’intelligenza artificiale, sono sempre più presenti nel nostro parlato di tutti i giorni. Stiamo parlando di termini come “approfondire”, “abile”, “meticoloso”, “ambito”, “complesso”, e “sottolineare”. Se un testo è stato scritto da un’AI, spesso si riconosce proprio da questo uso massiccio di certi vocaboli. Ora, il bello è che noi, come brave spugne, stiamo assorbendo questo modo di esprimersi.

Punto Informatico ci dice che c’è stato un aumento del 50% nell’uso di alcune di queste parole, e HDblog ha notato che il termine “approfondire” è cresciuto addirittura del 51% nel nostro vocabolario. Praticamente, l’AI ci sta dando lezioni di lingua, e noi obbediamo. Senza chiederci se sia una buona idea.

Quando il linguaggio ChatGPT entra nella testa

Allora, che succede? Siamo davanti a una specie di omologazione linguistica? Se un tempo il gergo da tastiera, nato con le messaggerie e poi passato agli SMS, come “LOL” o “TVB”, restava per lo più confinato alla scrittura, oggi pare che la situazione sia diversa. Qui parliamo di qualcosa di più sottile, di un cambiamento quasi impercettibile che ci sta rendendo tutti un po’ più… algoritmi, nel modo di dialogare.

Quando un modello come ChatGPT genera testo, non fa altro che combinare parole in base a probabilità statistiche, scegliendo quelle che ritiene più adatte al contesto. Il problema sorge quando queste parole, pur essendo formalmente corrette, finiscono per appiattire la varietà e la spontaneità del nostro lessico. Perdiamo un po’ di quella nostra unicità, di quell’imprevedibilità che rende il dialogo umano, beh, umano.

Cosa stiamo perdendo in questa corsa alla standardizzazione del linguaggio?

Quante sfumature emotive, quante espressioni colorite, quante metafore spontanee vengono sacrificate sull’altare di una comunicazione sempre più prevedibile? Forse, un giorno, vi ritroverete a dire a vostra nonna che desiderate “approfondire il suo brodo”, e lei vi guarderà come se aveste perso il senno. E forse avrà ragione.

Questo ci porta a una domanda più ampia. Se il nostro modo di parlare si modella su quello di un algoritmo, cosa succede alla nostra capacità di pensare in modo originale? Di coniare nuove espressioni, di giocare con le parole, di lasciarci guidare dall’intuito anziché da schemi predefiniti? La conoscenza, dopotutto, non sta solo nel sapere i fatti, ma nel saperli esprimere, manipolare, persino stravolgere, per capirli davvero a fondo. E un linguaggio che si impoverisce, che si uniforma, non rischia di portarci verso un pensiero meno critico, meno vivace?

Insomma, è la solita storia. Ci stupiamo che la tecnologia entri nelle nostre vite, salvo poi renderci conto che non solo ne influenza le abitudini, ma persino il modo più intimo di esprimersi. Come un vecchio amico che vi ruba le battute, solo che questo amico è fatto di silicio e bit. E non restituisce mai la penna.

Magari è il momento di staccarsi un attimo dallo schermo, prendere un bel libro (stampato, possibilmente) e riscoprire la bellezza di un italiano che sa ancora di terra, di mare e di persone, non di server e algoritmi. Magari così, il vostro vicino di casa, quando vi sentirà parlare, non si chiederà se siete appena usciti da una conversazione con un robot. E potrete continuare a “mangiare il rospo” invece di “cogliere l’opportunità di affrontare una situazione spiacevole”. Pensateci.

L’articolo Parli come ChatGPT? Forse è più comune di quanto credi è tratto da Futuro Prossimo.

Società, intelligenza artificiale 

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